“Voto no, troppo potere nelle mani di uno solo”.

Intervist a il Mattino, di Paolo Mainiero.
Nel pomeriggio a Battipaglia, domani a Potenza, domenica ad Avellino. Roberto Speranza, deputato del Pd, esponente della minoranza interna, è in giro per la campagna referendaria.

Il Tribunale di Milano ha respinto il ricorso di Onida. Il 4 dicembre si vota…
«Non commento le sentenze. Quel che penso è che abbiamo fatto una campagna fin troppo lunga. Si voti il 4 e si scelga liberamente e democraticamente, poi dal giorno dopo si lavori per riunire il Paese e il Pd. Il voto rischia di lasciare solo macerie. Abbassiamo i toni, sdrammatizziamo, evitiamo scontri di civiltà tra il bene e il male».

È impossibile ogni ulteriore mediazione? Il suo è un No irrevocabile?

«Quando tutti dicevano che l’Italicum era perfetto io mi dimisi da capogruppo e non votai la fiducia. In un anno abbiamo più volte chiesto di andare in Aula e cambiare la legge elettorale, e invece l’Italicum è ancora lì».

C’è un documento che impegna il Pd a modificare la legge. Non basta?
«Un partito che conta quattrocento parlamentari non può cavarsela con un documento ambiguo e fumoso. L’Italicum è in vigore e resta tutto in piedi il tema del “combinato disposto”. Le due questioni, riforma e legge elettorale, sono profondamente legate. Quando, come prevede la riforma, una sola Camera legifera e vota la fiducia diventa decisivo il modo con cui eleggi quella Camera. L’Italicum è disastroso. Avremo una Camera di nominati e si permetterà a una minoranza di diventare dominante. Il mio voto è e resta No».

Nessuna scissione se dovesse vincere il Sì?
«Il Pd è il mio partito e non è in discussione la mia adesione a questo progetto».

Quanto le ha fatto male il «fuori, fuori» urlato alla Leopolda?
«Mi ha fatto male, molto male perchè è un simbolo di arroganza che non dovrebbe esserci. Quel coro mi ha ricordato il “ciaone” del dopo-referendum sulle trivelle quando oltre 15 milioni di italiani votarono e si liquidò la cosa con uno sberleffo. E mi dispiace che quelle urla siano venute dalla Leopolda, nella quale non mi sono mai identificato, ma che aveva rappresentato una sfida con il sorriso al potere. Oggi la Leopolda è sembrata più un luogo dove il potere si è arroccato e chiuso e vuole escludere gli altri».

Renzi ha fatto capire che se vincerà il No non si lascerà rosolare a Palazzo Chigi. Il premier deve dimettersi?
«Il referendum è sull’architettura istituzionale dello Stato e il governo non c’entra. Quando Renzi dice “fate come Sanders” commette un errore gravissimo. Negli Usa si è votato per scegliere il presidente mentre in Italia si vota sul cambiamento della Costituzione e non sulla legittimazione del capo del governo. Quel paragone getta la maschera sulla lettura plebiscitaria che Renzi dà al referendum».

Lo scenario di un governo tecnico è realistico?

«È uno scenario totalmente improprio. Il 4 dicembre non si vota sul governo».

La segreteria Renzi scade a dicembre del 2017. Chiederete di anticipare il congresso?

«Anche su questo punto serve chiarezza: il referendum non c’entra né con il congresso né con il Pd. Renzi è stato eletto segretario nel 2013 ed è evidente che, come da statuto, nel 2017 si terrà il congresso. Si vedrà in quale mese».

Si candiderà alla segreteria?
«Lavorerò per costruire un’alternativa che pensi a riavvicinare tanti iscritti e elettori che si sono allontanati e si stanno allontanando perchè non credono a questo Pd».

Insisto, guiderà lei questo percorso?
«I nomi verranno dopo. Prima serve un progetto che dica parole chiare anche sul piano delle alleanze. Voglio un Pd che rivendichi con coraggio il campo d’azione del centrosinistra, che guardi all’Ulivo. E che finisca di amoreggiare con Verdini, come ha fatto, male e perdendo, a Napoli».

Il referendum arriva dopo il ciclone Trump. Come legge il voto americano?
«Il voto va letto dentro un quadro più ampio. Il segnale che arriva dagli Usa mi sembra in linea con le avvisaglie che ci sono state in Europa. Penso alla Brexit e all’avanzata della Le Pen in Francia. C’è un sentimento di inquietudine e rabbia profonde che al momento del voto si riversa contro gli establishment e la incapacità dei gruppi dirigenti di fronteggiare le diseguaglianze».

Il modello Trump farà scuola in Europa?

«Durante la campagna per la Brexit incontrai a Londra il leader dei laburisti Jeremy Corbyn. “Attenzione. Se noi democratici – mi disse – smettiamo di apparire quelli che più si battono contro le diseguaglianze finiamo per consegnare il popolo ai populisti”. Mi sembra che sia il cuore del problema».

In Italia Salvini e Grillo intercettano il malcontento. Il Pd è in ritardo?
«Dentro il voto Usa c’è un tratto comune alle ultime amministrative. La vittoria del M5s a Roma e a Torino è figlia della stessa rabbia e inquietudine. Per arginare il populismo serve che le forze del centrosinistra rimettano al centro la questione sociale e diano risposte ai ceti popolari che oggi recepiscono il nostro messaggio come difesa dello status quo».